listen silent|2022
fine art ink-jet print, diptych cm 42×30
fine art ink-jet print, diptych cm 42×30
To see a world in a grain of sand
and heaven in a wild flower.
Hold infinity in the palms of your hand
and eternity in an hour.
William Blake
KALEIDOS TIME, NOSTALGIA DEL PRESENTE
AB All’inizio di marzo 2020, poco prima dell’emergenza sanitaria e del lockdown, tu hai avuto l’intuizione di
una svolta esistenziale collettiva, una condizione imprevista e obbligata di cambiamento radicale delle
consuetudini, di stravolgimento del rapporto abituale con il quotidiano, con i suoi riti, oggetti, relazioni.
Una sensazione di perdita da cui scaturiva quella che hai chiamato con un efficace ossimoro poetico
“nostalgia del presente”, cioè una percezione totalmente diversa, straordinaria, dell’ordinario. L’incontro
casuale con una lente prismatica, acquistata da una bancarella, ti ha suggerito l’idea di guardare attraverso
l’obbiettivo della tua macchina fotografica mediante un intruso, un filtro alieno che trasfigurava la visione
degli oggetti e situazioni a te vicini: animali, piante, fiori, cieli, pavimenti, oggetti d’uso… Come hai vissuto
sul piano creativo questa esperienza di trasformazione percettiva?
PM La prima fotografia è del primo marzo, quella sera un‘insolita inquietudine mi ha spinta a cercare
rifugio nella visione, nel gesto creativo. Quando poi è scattato il lockdown, la sensazione primaria è stata
quella di vivere una condizione paradossale: sentirmi connessa mai come prima all’altro da me,
nell’impossibilità però di essere insieme agli altri. La percezione di essere un frammento isolato, circondato
dal nulla, pur vivendo una dimensione comune. Il termine “nostalgia” è per me legato a una condizione di
lontananza: percepivo che tutto si stava allontanando, e catturarlo nella rete inedita di quest‘occhio
fotografico “truccato” mi dava un’emozione fortissima e anche confortante. Mi colpiva, guardando dentro
questa lente, la possibilità di ridurre e frammentare la dimensione dell’oggetto ripreso, e nello stesso
tempo di moltiplicarlo, con un’espansione virtualmente infinita dello stesso frammento. L’altro aspetto che
mi interessava era la cornice circolare che isolava il singolo elemento, moltiplicandolo in una sorta di nuovo
pianeta autonomo, un mondo in cui si concentrava tutto, e che poteva fare da specchio alla mia interiorità
solitaria. Il mondo che mi circondava diventava appunto un altro pianeta, da osservare come attraverso
uno spioncino, non tanto con un occhio voyeuristico ma come atto di esplorazione e di meraviglia, in quel
circoletto appariva infatti un misterioso composto, che conteneva ed evocava i colori e le luci della
primavera, indizi (e nostalgia) di segni familiari. Poi la forma circolare mi ricordava anche la figura
inquietante del coronavirus stesso, e quindi il relazionarsi creativamente con essa diventava una sorta di
gioco per esorcizzare la paura di ciò che appariva nemico, provare ad ascoltare, a non demonizzare… Qui ho
spinto all’estremo la poetica del frammento, che nel mio lavoro ho spesso cercato, visto attraverso questa
lente “magica” anche il frammento apparentemente più insignificante e trascurabile rivelava una natura
nuova, sorprendente e a volte commovente.
AB La lunga esperienza del lockdown ha cambiato anche la percezione del tempo, dilatandolo e
riportandolo alla sua origine ciclica, legata più all’alternarsi del giorno e della notte oppure delle stagioni
che alla scansione serrata a cui la vita professionale e sociale ci aveva abituati. Infatti tu hai selezionato e
ordinato, a posteriori, le tue immagini sulla misura di una giornata ideale, che può ripetere se stessa, in un
tempo ciclico: 24 ore. Alle tue 24 fotografie hai associato 24 haiku, l’antico componimento giapponese in 3
versi, che diventano voce dell’immagine, e raccontano le sensazioni, istante dopo istante, di questa nuova
dimensione esistenziale, contemplativa. Tu hai sempre scritto versi, ma è la prima volta che associ in modo
sistematico la scrittura poetica alla fotografia, come hai maturato in questa occasione la tua scelta?
PM Queste immagini sono state raccolte e messe da parte nella primavera 2020, ma avevano bisogno di
tempo prima di essere condivise con gli altri, per maturare appieno il loro senso all’interno di questo nuovo
ciclo di vita. Sentivo che queste fotografie erano nate da un forte moto di necessità interiore, ma io stessa
non ero subito pronta a leggerne il simbolismo in tutti suoi aspetti, ne avevo ancora una visione parziale.
All’inizio del 2021 e in prossimità della nuova primavera, le immagini si sono in qualche modo risvegliate,
ricordandomi il vissuto dell’anno precedente, e lo stesso spirito contemplativo che le aveva fatte nascere si
è riproposto in forma di scrittura, attraverso l’haiku. La forma essenziale dell’haiku offriva una spontanea
corrispondenza con l’estetica del frammento che aveva guidato i miei scatti fotografici, si è così generato un
dialogo interiore tra parola e immagine, in cui l’una faceva emergere il senso profondo, ulteriore, dell‘altra,
senza però spiegare o argomentare nulla, anzi, per certi aspetti, infittendone il mistero, aprendo nuovi
sentieri di senso, un senso moltiplicato come il frammento del caleidoscopio. Ho riscontrato anche una
curiosa e casuale corrispondenza: il mio caleidoscopio ripropone l’oggetto proprio in 24 parti!
In merito alla contemplazione, aggiungo che ho voluto completare questo lavoro con un video, un
linguaggio per me nuovo. Girato in una lavanderia a gettoni, propone all’osservatore un’esperienza di
contemplazione del movimento. Vuole essere anche un omaggio a Man Ray, ai suoi mobiles e al cinema
automatico, che pone al centro il guardare senza scopo, superando l’esigenza della narrazione. È il modo
che ho scelto per esprimere che l’antitesi tra immobilità e movimento è in realtà illusoria, così come lo è la
dimensione del tempo. Il secolo non è diverso dall’istante, formica, uomo, stella, nell’infinito sono uguali,
questo lo diceva Giordano Bruno.
da una conversazione con Andrea Balzola
Torre Pellice, giugno 2021
fine art ink-jet print, cm 100X70 / 60×40
Passeggiata con il Cavaliere Azzurro
di Paola Mongelli
“L’occhio aperto e l’orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze. Come esploratori che si addentrano in paesi nuovi e sconosciuti, noi facciamo scoperte nel mondo quotidiano, e il nostro ambiente, altrimenti muto, comincia a parlare in un linguaggio sempre più chiaro. Così i segni morti diventano simboli viventi, e ciò che è morto diventa vivo.”
Così scriveva Vassily Kandinsky nel 1926.
Ho letto Punto linea superficie e Lo spirituale nell’arte a 20 anni, sono stati i primi testi che hanno nutrito gli anni giovanili della mia formazione. Le teorie di questo grande artista sull’arte e sulla composizione hanno un valore mistico e spirituale, ancor più che estetico. Solo oggi mi rendo conto di quanto il suo pensiero sull’arte e sulla vita mi abbia profondamente segnata.
È stato grazie al mare che ho avuto l’occasione di ritrovarmi immersa in questa dimensione, passeggiando su una spiaggia bretone in un pomeriggio d’inverno…
Erano gli ultimi giorni dell’anno, l’aria era velata e gelida. Sotto i miei passi, forme e segni lucenti erano disseminati sopra un immenso tappeto di sabbia, reperti ancora umidi che il mare aveva da poco abbandonato.
All’improvviso il cielo e il mare, così presenti fino a un momento prima, sembrano scomparire ai miei occhi, e in quell’istante sento forte un richiamo… ho come la sensazione di essere presa per mano da un cavaliere misterioso arrivato da molto lontano, che mi invita a dipingere. Tiro fuori la mia fotocamera e inizio a comporre quadri.
Sospesa tra astrazione e concretezza mi metto a ritagliare, attraverso la cornice dell’inquadratura, frammenti rigorosi che scompongono, nella mia percezione, l’unità di quella distesa smisurata. Non tocco e non altero nulla, non c’è niente da migliorare quando la natura offre il suo spettacolo.
Smetto di pensare, e una voce raggiunge il mio orecchio per sussurrarmi: “sono le configurazioni date agli elementi, non gli elementi stessi, a conferire tensione ed energia trasformando la realtà inerte in pulsione vitale… quando crei delle relazioni all’interno del campo, nascono quelle vibrazioni interne che fanno palpitare la materia di colore e forma… è nell’esperienza della visione che la realtà si anima, è il nostro sguardo a dare un senso al mondo.”
Il mare mi ha regalato la possibilità di rendere omaggio a Kandinsky attraverso questa serie di fotografie. Ringrazio questo maestro per avermi insegnato a non separare il materiale dall’immateriale, a percepire il sacro nell’ordinario. Mi ha permesso di assorbire un po’ di quella sensibilità orientale, che riconosce nel carattere instabile e transitorio di ogni cosa che esiste, la vera bellezza e la vera ricchezza della vita.
E se, come dice Aristotele, l’anima è la forma del corpo, ci si può smarrire riflettendo sul senso della visione, sulla dicotomia forma/contenuto, sui legami tra essenza ed apparenza. Con il rischio di innamorarsi di ogni istante del film della vita… e in questo la fotografia è il complice ideale!
Paola Mongelli
novembre 2019
Paola Mongelli: kandinskijana
di Gabriele Perretta
Senza il mare, la sabbia è perfetta, ma di una perfezione astratta. Allo stesso modo l’idea di un passaggio fotografico si poggia su un sistema segnico – come può esserlo una dunetta della spiaggia – per poi superarlo. Come dire fotografia e visione concreta, dettaglio naturale nella logica costruita. Ma il marchio, la traccia concreta del paesaggio, non è più solo un codice semantico applicato.
È la fotograficità che esprime la cultura artistica, sia di chi lo realizza che di chi lo osserva. Se penso che il marchio espressivo delle foto di Paola Mongelli è un particolare caso di concrezione fotografica, che aggiorna i suoi tagli (concreto= astratto/astratto = concreto) in base alla ripresa sulla sabbia, trovo che essa rappresenti perfettamente il vedere flessibile e disomogeneo dello sguardo fotografico contemporaneo. I luoghi di questo sguardo, tuttavia, appaiono spesso oscurati dalla moltiplicazione di canali informazionali dell’immagine, sempre più associati a forme espressive senza contenuto.
La ricerca di Paola Mongelli sembra che sia stata concepita proprio per contrastare tale tendenza e per fornire, al contempo, un luogo specifico alle varie “attenzioni” (attanziali), che nell’elaborazione fotografica ritrovano la loro dimensione privilegiata. Il ruolo specifico della fotografia che qui si vuole salvaguardare, consiste nel mettere a fuoco quei momenti dell’elaborazione degli strumenti concettuali, indagando le relazioni tra astratto e concreto, studium e punctum, connotazione e denotazione dell’immagine.
Questa esigenza non può essere soddisfatta, se la ricerca fotografica viene omologata a una delle molteplici forme espressive della visualità di consumo! Non si intende, con ciò, rivendicare una sorta di autonomia del fotografico. Si è invece consapevoli del fatto che la fotografia artistica nasce dall’estrinsecarsi di prassi e testualità molteplici ed eterogenee, che vanno continuamente rimodulate. In contrasto con chi, esplicitamente o meno, propone una dissoluzione dello “sguardo fotografico” dei new media o della foto realistica tout court, Paola Mongelli – attraverso questo lavoro riferito a Kandinskij – intende ribadire la contestualità delle nozioni di astratto/concreto, nonché la specificità necessaria dello sguardo fotografico. Proprio per questo, la sua fotografia è stata eseguita con un “obiettivo a sintesi” che, quando l’immagine è a fuoco, ingrandisce i punti di sabbia e gli oggetti e li consegna allo sguardo del fruitore in un compendio kandinskijano! È un’immagine che parla di sé e contemporaneamente dell’oggetto rappresentato, del quale rivela reperti analogici e che si possono guardare, appunto, come grana cromatica infinita. Le conchiglie serbano un segreto e nulla sappiamo di chi le abita: conservano la magia dell’equazione matematica, mantenendo costante il rapporto tra reperto e dettaglio marino e perpetuando all’infinito la propria forma.
Proviamo a comparare l’alfabeto naturale di Paola Mongelli, con la traduzione fotografica del mondo marino degli Ossi di Seppia! Fotografie rettangolari ricche di resti insabbiati, che si srotolano allo sguardo e si addentrano tra conchiglie e sassi, legnetti e materiali bruciati dal tempo. La cosa che colpisce, dentro queste forme geometriche elementari purissime, è l’universo naturale ed analogico che esse rappresentano: la dimensione cosmica che V.V. Kandinskij evidentemente racchiudeva in uno spazio, in un taglio, in uno sguardo volutamente equilibrato, mentale e contemporaneamente tangibile.
La logica strutturale dei residui sabbiosi degli oggetti che diventano sintesi: punto, linea e superficie (1925). Il pensiero di Kandinskij è intriso dell’intuizionismo bergsoniano ed è pronunciato con un linguaggio spiritualista (vedi Lo spirituale nell’arte, 1910), che l’autore espone anche nei suoi scritti, quando parla di necessità interiore. Il problema che si presenta alla fotografia concreta, dopo la riflessione di Kandinskij, è se la forma e il colore e se gli oggetti ritrovati nello spazio della vita quotidiana e del paesaggio sociale, liberi da ogni impegno di rappresentazione, possano articolarsi in un linguaggio simbolico (o semisimbolico). Un semplice lembo di sabbia, un sintetico oggetto della natura, due o tre elementi “ritrovati”, possono servire molto bene a verificare la validità dei risultati raggiunti nelle passeggiate di una fotografa.
video/sound installation 3’35’’ + photo project
fine art ink-jet print, variable dimensions
gelatin silver print, double diptych cm 30×36
fine art ink-jet print, cm 100X70
fine art ink-jet print, variable dimensions
fine art ink-jet print, variable dimensions
fine art ink-jet print, variable dimensions
© 2013 Paola Mongelli | credits