To see a world in a grain of sand
and heaven in a wild flower.
Hold infinity in the palms of your hand
and eternity in an hour.
William Blake

KALEIDOS TIME, NOSTALGIA DEL PRESENTE
AB All’inizio di marzo 2020, poco prima dell’emergenza sanitaria e del lockdown, tu hai avuto l’intuizione di
una svolta esistenziale collettiva, una condizione imprevista e obbligata di cambiamento radicale delle
consuetudini, di stravolgimento del rapporto abituale con il quotidiano, con i suoi riti, oggetti, relazioni.
Una sensazione di perdita da cui scaturiva quella che hai chiamato con un efficace ossimoro poetico
“nostalgia del presente”, cioè una percezione totalmente diversa, straordinaria, dell’ordinario. L’incontro
casuale con una lente prismatica, acquistata da una bancarella, ti ha suggerito l’idea di guardare attraverso
l’obbiettivo della tua macchina fotografica mediante un intruso, un filtro alieno che trasfigurava la visione
degli oggetti e situazioni a te vicini: animali, piante, fiori, cieli, pavimenti, oggetti d’uso… Come hai vissuto
sul piano creativo questa esperienza di trasformazione percettiva?
PM La prima fotografia è del primo marzo, quella sera un‘insolita inquietudine mi ha spinta a cercare
rifugio nella visione, nel gesto creativo. Quando poi è scattato il lockdown, la sensazione primaria è stata
quella di vivere una condizione paradossale: sentirmi connessa mai come prima all’altro da me,
nell’impossibilità però di essere insieme agli altri. La percezione di essere un frammento isolato, circondato
dal nulla, pur vivendo una dimensione comune. Il termine “nostalgia” è per me legato a una condizione di
lontananza: percepivo che tutto si stava allontanando, e catturarlo nella rete inedita di quest‘occhio
fotografico “truccato” mi dava un’emozione fortissima e anche confortante. Mi colpiva, guardando dentro
questa lente, la possibilità di ridurre e frammentare la dimensione dell’oggetto ripreso, e nello stesso
tempo di moltiplicarlo, con un’espansione virtualmente infinita dello stesso frammento. L’altro aspetto che
mi interessava era la cornice circolare che isolava il singolo elemento, moltiplicandolo in una sorta di nuovo
pianeta autonomo, un mondo in cui si concentrava tutto, e che poteva fare da specchio alla mia interiorità
solitaria. Il mondo che mi circondava diventava appunto un altro pianeta, da osservare come attraverso
uno spioncino, non tanto con un occhio voyeuristico ma come atto di esplorazione e di meraviglia, in quel
circoletto appariva infatti un misterioso composto, che conteneva ed evocava i colori e le luci della
primavera, indizi (e nostalgia) di segni familiari. Poi la forma circolare mi ricordava anche la figura
inquietante del coronavirus stesso, e quindi il relazionarsi creativamente con essa diventava una sorta di

gioco per esorcizzare la paura di ciò che appariva nemico, provare ad ascoltare, a non demonizzare… Qui ho
spinto all’estremo la poetica del frammento, che nel mio lavoro ho spesso cercato, visto attraverso questa
lente “magica” anche il frammento apparentemente più insignificante e trascurabile rivelava una natura
nuova, sorprendente e a volte commovente.
AB La lunga esperienza del lockdown ha cambiato anche la percezione del tempo, dilatandolo e
riportandolo alla sua origine ciclica, legata più all’alternarsi del giorno e della notte oppure delle stagioni
che alla scansione serrata a cui la vita professionale e sociale ci aveva abituati. Infatti tu hai selezionato e
ordinato, a posteriori, le tue immagini sulla misura di una giornata ideale, che può ripetere se stessa, in un
tempo ciclico: 24 ore. Alle tue 24 fotografie hai associato 24 haiku, l’antico componimento giapponese in 3
versi, che diventano voce dell’immagine, e raccontano le sensazioni, istante dopo istante, di questa nuova
dimensione esistenziale, contemplativa. Tu hai sempre scritto versi, ma è la prima volta che associ in modo
sistematico la scrittura poetica alla fotografia, come hai maturato in questa occasione la tua scelta?
PM Queste immagini sono state raccolte e messe da parte nella primavera 2020, ma avevano bisogno di
tempo prima di essere condivise con gli altri, per maturare appieno il loro senso all’interno di questo nuovo
ciclo di vita. Sentivo che queste fotografie erano nate da un forte moto di necessità interiore, ma io stessa
non ero subito pronta a leggerne il simbolismo in tutti suoi aspetti, ne avevo ancora una visione parziale.
All’inizio del 2021 e in prossimità della nuova primavera, le immagini si sono in qualche modo risvegliate,
ricordandomi il vissuto dell’anno precedente, e lo stesso spirito contemplativo che le aveva fatte nascere si
è riproposto in forma di scrittura, attraverso l’haiku. La forma essenziale dell’haiku offriva una spontanea
corrispondenza con l’estetica del frammento che aveva guidato i miei scatti fotografici, si è così generato un
dialogo interiore tra parola e immagine, in cui l’una faceva emergere il senso profondo, ulteriore, dell‘altra,
senza però spiegare o argomentare nulla, anzi, per certi aspetti, infittendone il mistero, aprendo nuovi
sentieri di senso, un senso moltiplicato come il frammento del caleidoscopio. Ho riscontrato anche una
curiosa e casuale corrispondenza: il mio caleidoscopio ripropone l’oggetto proprio in 24 parti!
In merito alla contemplazione, aggiungo che ho voluto completare questo lavoro con un video, un
linguaggio per me nuovo. Girato in una lavanderia a gettoni, propone all’osservatore un’esperienza di
contemplazione del movimento. Vuole essere anche un omaggio a Man Ray, ai suoi mobiles e al cinema
automatico, che pone al centro il guardare senza scopo, superando l’esigenza della narrazione. È il modo
che ho scelto per esprimere che l’antitesi tra immobilità e movimento è in realtà illusoria, così come lo è la
dimensione del tempo. Il secolo non è diverso dall’istante, formica, uomo, stella, nell’infinito sono uguali,
questo lo diceva Giordano Bruno.

da una conversazione con Andrea Balzola
Torre Pellice, giugno 2021